Per… ritornare alla verità di noi stessi, ritornare a Dio e agli altri, siamo invitati a percorrere tre grandi vie: l’elemosina, la preghiera e il digiuno” (Papa Francesco, Ceneri 2023).

Proviamo a sostare sulla via del digiuno. Parola, questa, che evoca tempi passati, quando l’ascesi, la mortificazione, la penitenza in genere era intesa come via necessaria per il Paradiso.

Oggi, il riferimento è a ragioni dietetiche, estetiche o sportive.

Talvolta ci si appella al digiuno come mezzo di protesta, lo sciopero della fame: un digiuno ostentato, un digiuno che deve essere notato se vuol raggiungere lo scopo prefissato. Una forma di digiuno che è all’opposto di quello che Gesù chiede ai discepoli nel vangelo.

Eppure, non si può vivere la quaresima senza vivere il digiuno. Anzi, quello che si apre davanti a noi, è per eccellenza il tempo del digiuno.

Il nostro rapporto con questa pratica non è per nulla riconciliato. Forse, perché, nessuno di noi crede che il rapporto con il cibo sia un luogo di esperienza spirituale.

Facciamo tutti esperienza di un contesto sociale in cui risuonano messaggi ossessivi che chiedono “di tutto, di più e subito”, dove i modelli mirano ad una sorta di voracità che noi definiamo consumismo e dove regnano nuovi faraoni che impongono comportamenti narcisistici, espressione di un egoismo che non è in grado di riconoscere l’altro.

Solitamente, quando ai cristiani viene chiesto il digiuno lo si fa nella forma di una cena sacrificata a favore dei bisognosi o come impegno per la pace. Ma non è questo il digiuno richiesto da Gesù. E la nostra quaresima non è il corrispettivo del ramadan musulmano.

Perché, dunque, il digiuno cristiano?

Il digiuno evoca anzitutto una assenza, quella dello sposo. Il digiuno ricorda al credente e proclama alla comunità, alla chiesa e alla storia che il tempo della festa compiuta, del banchetto senza fine è ancora atteso. Un’assenza sofferta che spinge a invocare nella preghiera il ritorno dello sposo e ad attendere e preparare quella venuta. Perdere la dimensione del digiuno, per la comunità cristiana significa perdere la memoria di essere fatti per un incontro, quello definitivo con Gesù sposo e signore. Il digiuno, in questo senso, è espressione di speranza.

Il digiuno non è mai fine a se stesso. Si entra in questa esperienza in obbedienza allo Spirito del Signore per uscire dall’ossessione del mangiare. Digiunare significa, in tal senso, imprimere una disciplina alla oralità. Quando si parla di oralità si fa riferimento alla sfera nutritiva (con la bocca, infatti, si mangia), ma anche alla sfera della comunicazione (con la bocca si parla) e alla sfera affettiva (con la bocca si bacia). La oralità dice la sfera relazionale della persona.

La tradizione cristiana ha sempre riconosciuto che il cibo trascina con sé una dimensione affettiva molto accentuata: anoressia e bulimia sono espressione di un turbamento affettivo che si ripercuote nell’alimentazione. L’assumere cibo non è solo ordinato al soddisfacimento di un bisogno fisiologico, ma è strettamente legato con la sfera dell’affettività e del desiderio. L’oralità, pertanto, richiede una disciplina che ci aiuti a passare dal bisogno al desiderio, dal consumo al ringraziamento, dalla necessità personale alla comunione. Il peccato nella Bibbia è spesso descritto come voracità, che certo trova un riscontro immediato nel rapporto con il cibo, ma si applica pure al rapporto interpersonale e al rapporto con Dio.

Che cos’è, in tal senso, il digiuno eucaristico?

Non è affatto una mortificazione per essere degni, ma una disciplina del desiderio per imparare a discernere ciò che veramente è necessario, oltre il pane.

Digiunare significa imparare a conoscere che cosa ci abita: quando proviamo a digiunare un po’ seriamente, ci accorgiamo dopo breve tempo dell’insorgere in noi di collera, cattivo umore, bisogni prepotenti. Tutte occasioni per far emergere le domande più vere: quali sono i miei desideri più profondi? Quando sono insoddisfatto e quando sono nella pace? Di che cosa vivo? Il digiuno aiuta a scavare in profondità, nel segreto dove Dio vede e dove è possibile trovarlo.

Il mettere alla prova se stessi nel rapporto con il cibo è ciò che permette di discernere la nostra vera fame e il nostro autentico rapportarci a Dio e ai fratelli. Tutto il nostro essere, corpo compreso, confessa che noi cerchiamo Dio, che desideriamo la sua presenza per vivere, che oltre al pane abbiamo bisogno della sua parola. Il no momentaneo al nutrimento è memoria che solo la Parola del Padre è il cibo in grado di saziare la fame di chi non si lascia abbrutire dal desiderio incontinente dell’avere e del consumare.

Il digiuno, poi, evoca anche l’astinenza dal compiere ingiustizie. È cammino di liberazione, è condivisione.

Il digiuno, infine, è prendere distanza dal cibo per riscoprirne il valore: il pane è dono ed è nostro, cioè appartiene a tutti. Perciò va assunto con rispetto e con gratitudine (perché pregare prima di mangiare?), attenti che la nostra sovrabbondanza non sia motivo di miseria per altri. A ogni giorno il necessario per quel giorno.

Il digiuno, perciò, non è un assoluto o un fine. Esso è rivelazione delle grandi passioni che abitano il cuore dell’uomo. Esso è dono e come ogni dono non è mai oltre le possibilità reali di ciascuno, per cui deve essere accolto a misura delle proprie forze.

La tradizione cristiana ricorda che esso deve avvenire nel segreto, nell’umiltà ed è sempre finalizzato alla giustizia e alla condivisione.

“Il digiuno è inutile e anche dannoso per chi non ne conosce i caratteri e le condizioni” (Giovanni Crisostomo).

“È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli’‘ (Abba Iperechio);

“Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi” (Isidoro il Presbitero).