Ogni cultura indica al proprio interno situazioni, atteggiamenti, persone impuri. C’è un confine che separa da queste zone, un confine che non va mai varcato se ci si vuole mantenere puri, capaci di incontro con gli altri e perciò anche con Dio.
Ovviamente, all’opposto delle zone di impurità si collocano le zone sacre, che sono dei territori selettivi, dove entra solo chi è massimamente puro o purificato, perciò abilitato all’incontro con Dio.
Ne deriva che la vita sociale è come correlata da un duplice confine che ci si deve guardare dall’oltrepassare, così come stabilisce il volere divino nella legge religiosa di ogni popolo: da una parte ciò da cui bisogna stare lontani, dall’altra ciò in cui solo a pochi è concesso di entrare. Quanto più ci si allontana dall’impurità tanto più si può sperare di avere accesso al sacro. Questi due confini determinano poi due categorie di persone: da una parte i reprobi, coloro che hanno infranto la legge del gruppo, dall’altra i santi, persone considerate senza ombra e senza macchia, persone che in qualche modo sono riuscite a trascendere la propria umanità.
Chi è che stabilisce questi confini e queste distinzioni?  E’ la legge, che di volta in volta mette in guardia: attenzione, ecco il pericolo. La legge chiede di rapportarsi all’impurità come a un contagio da evitare: chi tocca, muore.
E l’impuro è di volta in volta il lebbroso, un cadavere, una professione, una categoria di persone, lo straniero di pelle o di religione.
Osservando da vicino quello che noi classifichiamo come impuro, ci si accorge che esso è tutto ciò che non si capisce e fa paura, ciò che potrebbe mettere in pericolo, quello che disturba o altera gli equilibri sociali, ciò che ricorda la minaccia della morte.
Le leggi dell’impurità sono i confini posti per tenere a bada la paura: i divieti sono le fortificazioni del gruppo che si difende dalle minacce di ogni possibile contatto con la morte. Ed è la paura quindi che genera la legge che fa allontanare dall’impurità.
Ecco perciò il sacro, l’altra paura: la paura del troppo grande, dello sconosciuto, del troppo puro dove non si vuole entrare per timore di essere trovati imperfetti, sporchi. L’incontro con Dio, pur così desiderato, è allontanato e recintato: noi dubitiamo di noi stessi e perciò riteniamo che Dio non ci possa approvare.
E’ così che si costruiscono i gruppi umani: ci si cautela contro il rischio della morte ma si allontana anche il divino, accontentandosi di inviare in esso come ambasciatore solo un rappresentante debitamente purificato. Noi che siamo gente comune, senza infamia e senza lode finiamo così per ritagliarci una zona neutra, protetta, lontana dalla morte e lontana da Dio.
Ma la parola e la persona di Gesù vengono a dirci qualcosa di nuovo in merito. Gesù varca continuamente i confini dell’impurità: tocca i morti, parla con i lebbrosi, con le donne, sta a tavola con pubblicani e prostitute e, nello stesso tempo, si presenta come “colui che è Dio”. Si presenta come un destabilizzatore della nostra geografia sociale e religiosa. Non ha paura della morte né del faccia a faccia con Dio.
Entra nelle zone proibite dell’umanità perché non ha paura di esse e non ha paura perché le guarda in faccia, le accoglie e le perdona. Non teme di esserne contagiato perché è libero, vale a dire che la sua vita e il suo cuore cercano sempre e soltanto ciò che piace al Padre. Ecco perché oggi ci chiede di gettar via la maschera dicendoci che alle radici delle nostre leggi di purità e di impurità non c’è Dio: ci siamo noi. Noi non vogliamo morire e rifiutiamo tutto ciò che ci parla di morte o ci fa avvicinare ad essa. Questa separazione tra puro e impuro è una “tradizione di uomini”, di uomini che hanno paura e sono perciò alle prese con i confini di una vita rassicurante.
Non è un caso che la nostra cultura rimuova continuamente la morte e i suoi segni. E’ come se volessimo nascondere tutto ciò che ricorda una sorta di unica certezza della vita, che cioè si deve morire. E perciò giochiamo a fare gli dèi immortali. E quindi la lista delle nuove impurità si allunga: via dai nostri ambienti le categorie di persone che hanno il torto di essere diverse, o deboli o riprovevoli…
Oggi Gesù ci guarda in faccia e ci chiede di ridare il nome giusto alle cose: la paura ci governa e perciò costruiamo regole per salvarci attribuendole alla volontà di Dio. Mentre, sembra dire Gesù, l’unico dato che ci dà accesso a Dio è proprio il non rimuovere la coscienza della nostra debolezza. Questo Dio che in Gesù entra nella nostra umanità ferita, vulnerabile, debole, indica nel peccato l’uomo da trovare, nella morte la vita da accogliere, nell’impuro il prossimo da recuperare.

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Dal Vangelo secondo Marco 7,1-13
 
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti ,quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: “Onora tuo padre e tua madre”, e: “Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte”. Voi invece dite: “Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio”, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».