«Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi» (Mt 17,22-23).

È questa la prospettiva da cui accostare quello che celebriamo nel Natale. Colui che sarebbe libero perché Figlio di Dio, si sottopone, proprio come ogni uomo, agli ordinamenti che regolano la vita degli uomini. Questo, però, non va da sé, anzi. Secondo il nostro modo di vedere, ci avrebbe convinto maggiormente se Dio Padre avesse escogitato un modo più plausibile, senz’altro più convincente per accreditare il Figlio in mezzo a noi.

Perché sottomettersi a delle prescrizioni rituali? Inoltre, non c’è traccia di un riconoscimento speciale da parte dell’istituzione religiosa, di chi, cioè, aveva dimestichezza con le cose di Dio: non è scritto da nessuna parte che Simeone fosse sacerdote. Lui e Anna, ottantaquattrenne, sono verosimilmente due laici. Perché proprio e solo loro?

Noi sappiamo come sono andate poi le cose, essi no. Non avevano davanti a sé un “enfant prodige”. Neppure i suoi genitori che lo avevano portato al tempio sapevano fino in fondo cosa attendesse quel figlio: il vangelo, infatti, se oggi ricorda lo stupore per ciò che si diceva di lui, più avanti non tacerà il loro smarrimento. Simeone, peraltro, non tarda a profetizzare una spada che trafiggerà l’anima della madre.

Di solito, noi riconosciamo qualcuno per delle fattezze particolari o per dei segni, dei gesti. Qui, nulla di tutto questo. Cosa avrà avuto di speciale quel bambino presentato al tempio da una coppia come tutte le altre tanto da far dire a Simeone di poter prendere congedo dalla vita perché i suoi occhi avevano “visto la salvezza”?

Contrariamente a quanto griderà l’Innominato nella sua famosa notte (“Dio, Dio, se lo vedessi, se lo sentissi”) i segni non bastano. I segni, infatti, rimandano ad altro, sono da leggere: e questa operazione non si improvvisa, non va da sé, richiede disciplina e allenamento. Forse che quelli che saranno spettatori o protagonisti dei segni che l’adulto Gesù compirà, saranno in grado di accompagnarlo nel suo mistero di dolore? Non se ne troverà uno. Non resisteranno neanche gli stessi discepoli che pure avrebbero dovuto avere dimestichezza con le sue opere e il suo annuncio. Di fronte allo stesso segno, i più fuggono via, il centurione, invece, riconoscerà di trovarsi di fronte al Figlio di Dio stesso.

Così quel giorno a Gerusalemme: mentre tutti sono presi dall’apparato del tempio, dall’offrire tributi e presentare suppliche, solo due vecchi che non si sono lasciati cristallizzare dall’abitudine prendono in braccio Dio stesso.

Non si trattò di un colpo di fortuna o di pura coincidenza: evidentemente erano stati in grado di lasciar parlare la loro vita abitualmente se furono capaci di riconoscere il modo nuovo con cui quel giorno venivano visitati e interpellati. Non si erano lasciati prendere dalle dispute religiose che rischiano di lasciar fuori l’essenziale.

Quando l’affetto ci lega particolarmente a qualcuno, ci è capitato senz’altro di dirgli: “ti aspetto sveglio”. Così Simeone: gli era bastato presagire quell’intuizione dello Spirito Santo per aspettare sveglio la venuta del Signore così come aveva deciso di manifestarsi e non come, forse, se lo sarebbe immaginato.

Simeone, come Maria e Giuseppe, si era fidato della promessa del Signore anche quando la stanchezza si sarà fatta sentire o quando, forse, si sarà chiesto se avesse ancora un senso attenderne il compimento. La promessa, tra l’altro, era quella che “non sarebbe morto senza aver veduto il Messia del Signore”. Il Messia un bambino come tutti, un bambino bisognoso di affetto e di cura come ogni piccolo sulla terra?

Ecco il modo in cui Dio sempre ci visita: con segni poveri che richiedono la fede per essere riconosciuti e accolti.