Mi sia consentito esprimere la mia gratitudine al vostro Arcivescovo, il carissimo don Gianni, della cui amicizia mi onora già da qualche anno avendomi affidato più volte il compito di guidare il ritiro del presbiterio nella Diocesi di San Severo. La Provvidenza di Dio ha voluto, poi, che questo legame si rinsaldasse per quanto ha segnato il pastore che lo ha preceduto, il compianto Mons. Nolè, potentino, i cui resti mortali sono custoditi proprio nella chiesa di cui sono parroco. Quello tra le nostre chiese è un legame già esistente per il dono di Mons. Vairo, figlio della vostra Diocesi e nostro amato pastore: ho trascorso tutto il tempo della formazione sotto la sua sapiente guida fino all’ordinazione diaconale.

Saluto ciascuno di voi, in particolare il Vicario, che ho avuto modo di conoscere in questi mesi dopo la morte di padre Francesco e quelli che già conoscevo.

Non sono qui per insegnarvi qualcosa di nuovo. Vengo fratello tra fratelli nella segreta speranza che ciò che condivido con voi, giovi anzitutto al mio ministero.

Mi è stato chiesto un intervento sulla comunione presbiterale che è un po’ come la nostra araba fenice. Desiderata, attesa e, tuttavia, mai sufficientemente sperimentata e vissuta perché sempre demandata a non si sa bene chi.

Non ho soluzioni magiche. Come un mistagogo guidato dall’opera della grazia, vorrei provare insieme a voi a scrutare qualcosa del mistero della comunione in cui siamo stati inseriti in virtù del sacramento dell’Ordine che tutti ci accomuna.

Come recita PO 8: “Tutti i presbiteri, costituiti nell’Ordine del Presbiterato mediante l’ordinazione, sono intimamente uniti tra di loro con la fraternità sacerdotale”.

Facciamo anzitutto una explicatio terminorum onde evitare fraintendimenti.

La parola “mistero”, purtroppo, l’accezione comune la intende come “enigma”. “Mistero della fede”, come a dire: chi ci capisce qualcosa? Nel nostro linguaggio, però, essa non ha nulla a che fare con i “misteri eleusini”. Per questo andrebbe tradotta con “eccesso, grandezza, pienezza”. Forse, così, ci è più chiaro: vogliamo provare ad entrare nella sovrabbondanza della comunione a noi partecipata da Cristo Signore.

Introduzione

“Il primo dono che come presbiteri siamo chiamati a partecipare alla Chiesa e al mondo non è un’agenda intasata di impegni, ma la fraternità vissuta fattivamente. Per questo è più importante vivere l’unità nel presbiterio, piuttosto che essere battitori liberi nell’attività pastorale. È più importante essere a servizio della comunione che diventare generosi dispensatori di servizi pure importanti. La Chiesa, prima ancora che di presbìteri necessita di presbitèrii” (Mons. Ligorio, Omelia Messa Crismale 2022).

Per quanto sacramentalmente costituiti presbiterio dall’unico Signore che ci ha chiamati alla sua sequela, di fatto questa parola stenta a identificare la comunione dei presbiteri attorno al Vescovo.

Fosse dipeso da noi, tra tutti quelli che compongono il medesimo presbiterio, forse, avremmo scelto solo un paio o poco più a condividere la nostra stessa vocazione. Ma questo non deve preoccuparci. A rileggere la chiamata dei Dodici in Mc 3,13-19, si evince chiaramente come alcuni provenissero dall’ambito della pesca, qualcuno si occupasse di imposte e, verosimilmente, non si facesse problemi a frequentare i bassifondi del tempo. Qualcuno, magari, veniva da qualche circolo più spirituale, qualcun altro da certi circuiti politici. Ad accomunarli, però, la chiamata dello stesso Maestro che lambendo le loro storie aveva segnato un prima e un poi. Non a caso, proprio in quel testo, Mc annota che Gesù “chiamò a sé quelli che volle” (3,14). E Benedetto XVI commentava: “quelli che volle, non quelli che lo desideravano”. Siamo stati voluti o siamo stati noi a desiderarlo?

Non siamo un’azienda presso la quale, tramite un concorso o un curriculum che si rispetti, essere finalmente assunti. Vogliamo credere che ciascuno di quanti siamo qui oggi, sia stato portato nel cuore dal Signore, come suggeriva di tradurre il Card. Martini. D’altronde, qualora avessimo inteso male, la vigilia della sua passione, sarà proprio Gesù a ribadirlo: “Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi” (Gv 15,16).

Già in Gv 6,70 Gesù afferma: “«Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici”. Scelto anche lui perché, come ci ha ricordato Gv 9,3, “si manifestassero in lui le opere di Dio”.

Come nel loro caso, anche noi non ci siamo scelti ma siamo stati scelti nella diversità delle età, delle storie, dei vissuti di fede e di scelte di vita.

La nostra è anzitutto una con-vocazione, nel senso etimologico del termine (chiamati insieme): quando siamo stati chiamati, infatti, siamo stati invitati non solo a fidarci di Colui che ci chiamava ma anche di coloro con i quali avremmo condiviso la vita e la missione presbiterale. E, tuttavia, sebbene questa sia la prospettiva che ci sta dinanzi, quante le difficoltà a perseguirla!

Dove nasce, allora, per noi la possibilità di vivere e alimentare la comunione presbiterale?

Non dalle nostre simpatie, non da affinità elettive e selettive, non da accordi previ o intese strategiche in base alle quali organizzare il nostro ministero, ma da Gesù Cristo risorto dai morti. È questa presenza, infatti, che aggrega e forma la comunità. È la sua presenza che crea il noi. Ecco perché, a buon diritto, possiamo affermare che la comunione presbiterale non è un ideale da realizzare ma un talento da far fruttificare.

A giudicare dal clima che talvolta si respira nei nostri presbitèrii, viene da chiedersi se crediamo nello stesso Dio o, meglio, se ci rapportiamo a lui allo stesso modo. Se presbiteri lo siamo per sempre in virtù del sacramento, forse, con più umiltà dovremmo definirci presbiteri credenti: credente, infatti, è il participio presente del verbo credere e non già un aggettivo che indichi una qualità sempre e comunque presente. Vale a dire: è il credere che fa di noi dei credenti, se, quando e nella misura in cui crediamo, nella misura in cui accogliamo in obbedienza la Parola di Dio e ci lasciamo guidare dallo Spirito. L’essere credenti non è mai una apposizione fissa della persona, tale per cui, qualunque cosa si faccia e si pensi, questa sia già una azione da credente, qualificata dalla fede.

Come possiamo annunciare la paternità di Dio quando tradiamo la nostra identità di figli/fratelli tra di loro? Tutte le volte che riusciamo a vivere la comunione tra noi, essa è profezia in atto per chiunque, profezia del  “popolo nuovo che ha come fine il tuo regno, come condizione la libertà dei tuoi figli, come statuto il precetto dell’amore” (Prefazio Comune VII).

Per questo “chi non è testimone della fraternità voluta da Cristo, non dovrebbe ardire di annunciare il vangelo” (sant’Agostino).

Proviamo a fare un viaggio a ritroso, nell’in principio di ogni cosa.

Un nuovo legame: Caino e Abele

Dopo aver narrato la nascita del legame uomo/donna (Adamo ed Eva) e quello genitore/figlio (Adamo, Eva e Caino), la Scrittura racconta quella di un nuovo legame: l’essere fratello. È Abele a rendere fratello Caino.

Se l’uomo e la donna sono attratti dall’eros fino a riconoscere di essere l’uno per l’altro un aiuto per farsi compagnia e per generare, se il rapporto genitori-figli è garantito dall’attrazione del sangue, non così quello tra fratelli.

Le loro diversità costitutive, la storia (uno più grande e uno più piccolo), le qualità e gli interessi (uno accudisce la terra mentre l’altro è pastore) non sono mai un’attrazione. Non basta neppure il fatto che siano stati formati dallo stesso grembo materno, se è vero che si può litigare anche là come attestano Giacobbe ed Esaù. Non basta neppure concepire i rapporti in maniera complementare. Gli interessi, infatti, non creano mai comunione stabile e, sulla lunghezza, provocano divisioni violente come ricorda la tragedia che si consuma proprio nell’in principio. Il motivo? Dio aveva gradito in modo diverso l’offerta di Abele rispetto a quella di Caino.

L’ostilità tra fratelli nasce dalla lotta per la stima, per il riconoscimento di sé. Se andassimo alla radice, infatti, scopriremmo che la stima che ci manca è proprio quella che soltanto il Padre celeste può donarci. La stima che ci manca è cercata così nei nostri simili, mancando quella stima, cerchiamo di provvedere da soli.

L’altro ti ricorda che non sei l’unico.

Sei unico, ma non l’unico: il fratello ti toglie l’articolo (cfr. Salonia).

La presenza del fratello è la più grande sfida a vivere decentrati. La tentazione più grande è quella di ritornare ad essere l’unico annullando il fratello che è considerato causa del mio malessere. Perché le lotte tra di noi? Perché non siamo in grado di gioire del bene che il Signore opera tramite un fratello? Perché le calunnie, le maldicenze? Perché un momento di tensione, di delusione diventa motivo per dichiararsi odio eterno al punto da non partecipare neppure più agli incontri dove uno sa che c’è l’altro?

Il fratello, dunque, può essere percepito come un’ingiustizia. Tanto più che a volte egli è elogiato per qualità che non hai e che consideri migliori delle tue.

Fraternità, dono pasquale

Se è vero che abbiamo dei fratelli non è affatto scontato essere fratelli. Ve lo testimonia uno che è l’ultimo di sei figli. C’è una bella differenza tra avere fratelli ed essere fratelli.

Sarà solo la legge evangelica a far riavvicinare uomini e donne che si ritrovino “nel mio nome” (Mt 18,20), secondo il detto di Gesù e intraprendano una grossa sfida: quella di passare dal fratelli coltelli allecco quanto è bello che i fratelli vivano insieme” (Sal 133,1).

“Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo” (S. Gregorio Nazianzeno).

Il vangelo non tace la frattura della fraternità, l’uccisione del fratello, il tradimento, il rinnegamento, la morte della fraternità stessa. Si entra così nella svolta vera e propria, ciò che rappresenta il novum della fraternità evangelica: all’origine della fraternità c’è l’uccisione e la morte di un fratello. Gesù è stato ucciso dai suoi e, per costruire la fraternità, non ha ricusato di entrare nella sofferenza e nello scandalo della croce.

Ad alimentare la nostra comunione presbiterale non sarà mai l’intesa ritrovata magicamente o miracolosamente ma la disponibilità di qualcuno a tessere riconciliazione mettendoci la faccia.

È interessante notare che la pagina più drammatica riguardante la fraternità nella Scrittura (dopo Caino e Abele) abbia come protagonista un uomo di nome Giuseppe, che etimologicamente significa “Dio aggiunge”. Giuseppe non è tale finché non ristabilisce la relazione con i suoi fratelli: lui che era l’aggiunto ai primi dieci fratelli, è chiamato ad aggiungere a sua volta. Giuseppe potrebbe a buon diritto essere il nome di ciascuno di noi. Siamo aggiunti e siamo chiamati ad aggiungere: non va da sé che funzioniamo da soli. Possiamo essere anche alla corte di faraone e far funzionare alla perfezione una comunità, un ufficio ma ci manca un pezzo, siamo monchi: quello della comunione con i miei fratelli.

Come Giuseppe, ritenuto ormai morto, è causa di vita per tutta la sua famiglia, così Gesù diventa causa di vita per i suoi fratelli. Prima della passione Gesù affermerà: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8), ma solo dopo la Pasqua ripeterà a Maria di Magdala: “Va’ dai miei fratelli” (Gv 20,7). Questo compito non può svolgerlo nessuno al posto nostro.

La fraternità, quindi, non nasce in Eden, ma fuori da esso, in un contesto di perdono e di riconciliazione, che è una vera e propria una nuova creazione.

La fraternità è un dono del giorno di Pasqua ed è un frutto dello Spirito.

Gesù: l’Unigenito, il Primogenito, l’Ultimogenito

Se Caino vede la nascita di Abele come ferita alla propria unicità e perciò è da eliminare, Gesù, l’Unigenito Figlio del Padre, invece di tenere per sé questa ricchezza (l’unico figlio del Padre), ci rinuncia diventando Primogenito di molti altri fratelli. In questa maniera viene a guarire la percezione che ogni Caino ha del fratello come limite, come impoverimento, come ferita. Gesù non si lascia dominare dall’istinto della paura sempre accovacciato alla tua porta (Gn 4,7), ma riconosce e accoglie il fratello come ricchezza.

Non solo. Diventato Primogenito di molti fratelli, giunge persino a rinunziare al suo diritto di primogenitura. Le nostre lotte sono sempre lotte per la primogenitura: siamo continuamente in conflitto per essere più dell’altro.

Gesù da Primogenito diventa Ultimogenito: primogenito come Caino diventa come Abele, l’ultimogenito messo a tacere. I tormenti nel cuore e i conflitti irriducibili possono essere sanati solo se si sceglie di essere ultimogeniti.

Caino era stato distrutto dal dubbio di non poter credere che Dio lo amasse dal momento che non aveva gradito il suo dono alla stessa maniera di Abele. La nostra, per dirla con Schellenbaum, è la ferita dei non amati o, meglio, degli amati non come avremmo desiderato.

Gesù sceglie di vivere da fratello senza potere, che perde, sconfitto, dal volto sfigurato (cfr. Zc 13,6 a proposito delle ferite ricevute in casa dei suoi fratelli), che continua a fidarsi e a credere nell’amore del Padre. Per Gesù la strada della pienezza non è quella che ti pone sopra il fratello ma ai suoi piedi.

Il vertice di questo cammino Gesù lo raggiunge nel perdono sulla croce, quando il fratello si manifesta come colui che ti toglie la vita, l’unica che hai. In quel momento la tentazione di sottrarci alla comunione è dietro l’angolo. Eppure, neanche lì Gesù si sottrae: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

Questo è il perdono di Gesù, un perdono che non crea separazioni: io/loro, il buono ucciso/i cattivi che uccidono. Un perdono che vuole mantenere la comunione anche con coloro che uccidono.

Sotto la croce gli si griderà: “Se sei Figlio di Dio scendi…”. Cosa c’è in queste parole se non un invito a tornare ad essere il Primogenito?

Nella notte in cui veniva tradito

Mancava poco alla sua dipartita e Gesù, proprio perché ai suoi fosse chiaro quello che aveva ripetuto più volte, che cioè nessuno aveva il potere di togliergli la vita ma era lui che la donava, volle che la cena pasquale non avesse nulla di improvvisato. Anzi, tutto fu preparato nei minimi dettagli chiedendo l’ospitalità di una stanza a uno sconosciuto.

Compiuta la preparazione, ecco la celebrazione. Quando fu effettuata? Tra il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro. Lì nasce l’Eucaristia.

“Nella notte in cui veniva tradito”, nella notte delle debolezze conclamate, del tradimento compiuto e del rinnegamento reiterato. Ecco il modo in cui si affrontano le crisi: ce lo testimonia il contesto in cui nasce l’Eucaristia (cfr. corso fidanzati).

Era la capacità che gli veniva dal Padre a permettere che Gesù trasformasse un grandissimo dolore in un amore assai più grande e a trasformare un odio tanto arbitrario in un’offerta pienamente gratuita.

Gesù assume preventivamente l’elemento di rottura – il tradimento, il fallimento, la morte – e lo trasforma in strumento di alleanza.

“Questo è il mio corpo”, cioè “questo sono io, così sono io”.

È bello e appagante celebrare l’Eucaristia quando esiste un mutuo riconoscimento e una reciproca accoglienza. Essa, però, ha il suo habitat naturale proprio nelle crisi, quando non tutto è chiaro e non è scontato il modo di affrontarle.

Sono le circostanze più contrarie e dolorose l’occasione per superare noi stessi e arrivare oltre il confine dell’amore più gratuito, in quel di più di carità che meglio lascia trasparire la nostra piena conformazione a colui del quale ci nutriamo.

“Chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata” (Pavese). L’essere conformati al sacerdozio di Cristo ci introduce in questo tipo di percorso e questo non va da sé: sono io a decidere se e come lasciarmi conformare a lui.

Quella sera Gesù non imboccò la strada del ripiegamento o del silenzio sdegnoso e sprezzante, né scagliò invettive contro chi stava per tradirlo ma, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1).

Di questo è memoriale l’Eucaristia che noi presiediamo ogni giorno ma, forse, non più come la prima, l’unica, l’ultima come ripeteva don Bosco a don Rua.

Capiamo, così, che l’Eucaristia non è stata istituita per mandarci in estasi, ma per metterci in crisi quando siamo chiamati ad andare oltre noi stessi e le nostre ragioni.

Quella sera, prima di lavare i piedi ai suoi, Gesù aveva deposto le vesti, aveva deposto, cioè, tutto ciò che lo avrebbe potuto collocare su un altro piano, tutto ciò che avrebbe potuto far sentire il gesto della lavanda come un atto di carità. Quello di Gesù, invece, non è né un gesto di umiltà né di carità: è il gesto che dice come è Dio (un gesto di teologia fondamentale!). Non a caso Gv annota che Gesù compie tutto questo sapendo (3 volte).

Anche voi dovete lavarvi i piedi

Dopo aver deposto le vesti comincia a lavare i piedi. Non si tratta di piedi scelti ad hoc per l’occasione come accade nelle nostre celebrazioni.

Quella sera, il gesto di chinarsi e lavare i piedi degli apostoli con dell’acqua, non fu l’ultima trovata bizzarra del Signore. Quell’acqua aveva raccolto, certo, la fatica e la polvere accumulata dai piedi dei Dodici, ma ancor più era lì come una reliquia a testimoniare il diverso modo di rapportarsi alla passione del Cristo (cfr. Madeleine Delbrel).

Certo ci sono i piedi di Natanaele, i piedi cioè di un irreprensibile, di uno in cui non è falsità.

Ci sono senz’altro i piedi di Giovanni, di colui cioè che avrebbe preso il suo posto accanto a sua madre, piedi capaci di correre in fretta il mattino di pasqua.

Ci sono i piedi di Pietro, quei piedi che lo avrebbero portato di lì a poco lontano da lui nel rinnegamento. Piedi che lo trattengono lontano dagli eventi che riguarderanno il suo maestro.

I piedi di Giuda, piedi che di lì a poco sarebbero rimasti sospesi al vento.

E poi i piedi di ciascuno di noi. Quella sera, infatti, prima di lasciare i suoi, Gesù ha preso tra le sue mani i piedi di ciascuno di noi, pensando a tutti i nostri percorsi sbagliati, a tutte le nostre fughe da lui, a tutti i nostri percorsi senza vie d’uscita. Nonostante piedi in fuga, a quei piedi sarà affidato l’annuncio di speranza che dovrà raggiungere ogni uomo. A noi questa speranza è giunta proprio tramite quei piedi.

Questo servizio non è un servizio generico, astratto: è servizio nei confronti dell’impuro che c’è in noi. Il servizio di Gesù non parte solo dall’impuro che c’è in noi, i piedi, ma dall’inamabile tra di noi, da Giuda, dall’inservibile tra di noi, Pietro.

L’amore di Dio rivelato da Gesù non conosce parentesi e non conosce riserve. Il gesto di quella sera – come il gesto che ripetiamo in ogni Eucaristia – ricorda che ciascuno di noi, Giuda compreso, diventa il discepolo amato.

Ancora una volta, quella sera, attraverso quel suo chinarsi davanti ad ognuno dei suoi discepoli, Gesù ci lasciato come testamento lo sguardo dal basso. “Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato… a guardare i grandi eventi della storia… dal basso, dalla prospettiva degli esclusi…” (Bonhoeffer). Lo sguardo dal basso è lo sguardo di chi si mette ai piedi della crescita dell’altro (cfr. Mario Luzi: ai piedi della loro crescita). E sappiamo che “se non si è guardati con amore ci si limita a sopravvivere”.

Aveva ragione don Giussani quando scriveva: “La soluzione dei problemi non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta… Il particolare lo si risolve approfondendo l’essenziale”.

Da questo tutti sapranno…

Cioè, dall’amare gli altri non quando capita, ma facendo in modo che capiti sempre. E perciò cercare le occasioni. Proprio come fa il Padre.

Giuda e la Comunità

Ben poco separa Pietro da Giuda, un’ombra appena o, meglio, li separa solo una lacrima.

Nessuno di noi è neutro rispetto al peccato altrui. Certo, Giuda è responsabile del proprio tradimento, ma com’è è entrato satana nel suo cuore? Non è che una parte di responsabilità sia da attribuire anche agli altri che non sono stati capaci di vicinanza mentre intraprendeva una sorta di sequela parallela?

Chiamati a portare gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2), siamo chiamati a farci carico di quanto accade o meno nella vita dei fratelli. La nostra fede ci dice che siamo un corpo solo e perciò la mano non può dire al piede che non gli importa se sta male. Paolo si spinge ancora più oltre quando afferma che le parti più delicate sono quelle che devono ricevere una cura maggiore da parte delle altre (cfr. 1Cor 12,12ss).

Come è possibile che i Dodici siano stati insieme per anni senza accorgersi di quanto stava accadendo nel cuore di uno di loro? È possibile che uno cambi atteggiamento, modo di pensare e di parlare senza che qualcuno se ne accorga?

Accade anche a noi allorquando si vive accanto ma con la paura e la vergogna di dirci l’un l’altro. Facciamo pezzi di strada insieme come degli sconosciuti, come se fosse possibile camminare verso una meta comune senza tener conto di chi cammina con noi.

“Si uniscono senza conoscersi, vivono senza amarsi, muoiono senza compiangersi” (Voltaire)

L’attenzione

La vicenda di Giuda richiama il tema dell’attenzione. Ora l’attenzione va coltivata: iniziare a far caso alla presenza o all’assenza di qualcuno, notare la faccia non bella che uno può avere oggi, la stanchezza, l’umore; imparare a far attenzione a ciò che può far piacere all’altro, ciò che gli piacerebbe avere, le parole che vorrebbe ascoltare; fare attenzione perché io possa essere un orecchio attento perché l’altro possa dire quello che si porta dentro.

È più facile l’indifferenza che l’attenzione, più facile puntare il dito che farsi carico. Forse Giuda non ha trovato nessuno con cui parlare, con cui confrontarsi, con cui confidarsi.

Perché quella sera nel cenacolo, quando Giuda si lasciò la porta dietro, nessuno lo rincorse? I compagni preferirono fare delle congetture (qualcuno pensò che il Maestro gli avesse affidato qualche commissione da fare).

Forse certi gesti si compiono soltanto perché si è soli, unicamente perché ci si sente abbandonati.

Probabilmente Giuda, prima di tradire Cristo, era stato tradito dagli amici di Cristo. È un tradito traditore. Don Mazzolari scriverà: “qualcheduno però deve aver aiutato Giuda a diventare il traditore”.

Se ci facciamo caso è strano ciò che accade. Gli apostoli avevano appena celebrato la prima eucaristia, ma questo non li interpella circa la loro responsabilità verso i membri della stessa comunità.

Non accade anche a noi di concludere: affari suoi, questo non mi riguarda, non spetta a me?

Ci costa l’iniziativa di un affetto. Ma la storia di Giuda è lì a ricordare che i nostri peccati di omissione possono permettere ad alcuni di intraprendere strade senza ritorno.

Certe solitudini

Rileggendo il dramma di Giuda si scopre che se, è vero che gli apostoli nulla hanno fatto per guadagnarlo a sé nuovamente, è altrettanto vero che qualcuno disposto ad accettare il suo piano lo ha trovato nei sommi sacerdoti e negli anziani. Si tratta di persone che addirittura si rallegrarono per quanto avesse concepito (cfr. Mc 14,11).

Tuttavia, la storia cambia all’improvviso una volta consumato il tradimento. Nessuno più si rallegra e Giuda è l’uomo più solo al mondo. Abbandonato persino da chi aveva gioito del suo intento. Quando vorrebbe pentirsi, infatti, non esitano a dirgli: Che ci riguarda? Veditela tu! (Mt 27,4). Unica compagna gli resta la morte che non tarda a sposare: uno sposalizio che avrà come testimone solo la solitudine.

Accade anche a noi, talvolta, di non distogliere qualcuno dal male ma addirittura di appoggiarlo, pronti poi a lasciarlo da solo a gestire qualcosa di troppo più grande di lui.

Conosciamo tutti quel sottile modo di fare che non ci fa sporcare le mani più di tanto, ma le fa sporcare ad altri. È l’atteggiamento di chi stuzzica qualcuno a fare o dire qualcosa che poi rimpiangerà di aver fatto o detto. Talvolta basta una battuta, un’allusione apparentemente innocua, il far riemergere con aria innocente episodi di vita passata: quanto basta perché la molla sia innescata e il meccanismo parta.

Se è vero che basta poco per lanciare qualcuno nella mischia, bisogna riconoscere che basta molto meno per lasciarlo fare da solo.

Se noi manchiamo di fede egli rimane fedele

Giuda non ha saputo o non ha voluto fare l’esperienza della misericordia del Signore. Più volte Gesù aveva ripetuto di non essere venuto a chiamare i giusti ma i peccatori (cfr. 9,12-13). Eppure questo non è bastato a Giuda.

Se solo, come Pietro, avesse avuto il coraggio di incrociare lo sguardo di Gesù, avrebbe capito che il Signore non tradisce neanche quando è tradito, non abbandona neanche quando è abbandonato. Il peccato può offuscare il nostro amore per il Signore ma non intacca mai l’amore di Dio per noi.

L’acqua sporca

“Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione
prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente
e ad ogni piede cingermi dell’asciugatoio
e curvarmi giù in basso,
non alzando mai la testa oltre il polpaccio
per non distinguere i nemici dagli amici
e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato,
del carcerato, dell’omicida, di chi non mi saluta più,
di quel compagno per cui non prego mai,
in silenzio,
finché tutti abbiano capito nel mio
il tuo Amore”.
(Madeleine Delbrêl)