Introduzione

Il Catechismo di S. Pio X, alla domanda: “a qual fine siamo stati creati?”, rispondeva: “per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo pienamente in paradiso”.

Guardando le cose create, ogni uomo, per il lume della ragione a lui donato da Dio, dovrebbe poter giungere a riconoscere che dietro il creato non può non esserci un Creatore, anche se magari non sa nominarlo, non sa ancora che volto abbia. Il problema, semmai, è quando le cose create finiscono per essere idolatrate prendendo il posto di chi ha fatto sì che esistessero.

Poiché per il peccato originale è come se avessimo perso la password per comprendere quanto ci richiama Rm 1,19 (“Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto”), ecco che Dio ha pensato ad un altro libro, quello della sua Parola, per ricordare ad ogni uomo che tutta la creazione non solo viene da Dio ma è incamminata verso di lui. Questo è il compito dei cristiani che sono per il mondo come l’anima per il corpo (cfr. Lettera a Diogneto): trasfigurare ogni cosa perché tutto diventi primizia di ciò che sarà alla fine.

“Nei tuoi santi, che per il regno dei cieli
hanno consacrato la vita a Cristo tuo Figlio,
noi celebriamo, o Padre,
l’iniziativa mirabile del tuo amore,
poiché tu riporti l’uomo
alla santità della sua prima origine
e gli fai pregustare i doni
che a lui prepari nel mondo rinnovato”.

(Prefazio Sante Vergini e Santi Religiosi)

 

In principio

Quando uscivamo dalle mani di Dio, eravamo stati pensati in grande: creandoci a sua immagine e somiglianza, Dio ci chiamava a cooperare al suo progetto sulla creazione perché ogni cosa potesse sussistere secondo il suo specifico ordinamento. Non solo: l’uomo era stato costituito interlocutore alla pari con il suo Signore il quale scendeva a passeggiare con lui alla brezza della sera dal momento che era stato concepito per partecipare del suo stesso riposo, ossia della piena comunione con lui intesa come contemplazione estasiata di ciò che era uscito dalle mani di Dio.

Non dimentichiamo che il racconto della creazione ha come un andamento litanico/responsoriale allorquando dopo la creazione di ogni cosa, è detto: “ed ecco era cosa buona…”. E quando finalmente Dio supera se stesso nel creare l’uomo si aggiunge: “ed era cosa molto buona”.

Dio aveva poi posto l’uomo in mezzo al giardino perché lo coltivasse e lo custodisse. Coltivare e custodire, in ebraico significano anche: servire e osservare. Questo significa che il lavoro è il servizio gradito a Dio, il culto che egli desidera. Ed è luogo in cui si mette in pratica e si osserva la sua legge. Dunque, fa’ sì che il tuo lavoro diventi preghiera e un modo di praticare la giustizia (è il senso dell’ora et labora di Benedetto da Norcia). Il lavoro non era una condanna ma espressione della dignità stessa dell’uomo. Un uomo che non lavora non ha solo problemi economici e di sussistenza: è leso nella sua identità più vera.

Potremmo collegare a questo anche ciò che Gesù dice alla Samaritana: non occorrono luoghi e tempi per adorare Dio perché il Padre desidera figli che gli assomiglino in ciò che sono e in ciò che fanno.

Poi, però, per quel deragliamento originale inferto nella relazione con Dio, tutto era precipitato come in un baratro: tanto la relazione con Dio quanto quella tra l’uomo e la donna e tra questi e l’intera creazione. Nulla era più naturale e spontaneo. E, infatti, lo stesso lavoro diventerà alienante.

Dio, però, non si rassegna alla piega degli eventi e, per questo, ingaggia nuovamente l’uomo perché, mediante l’opera delle sue mani di cui sperimenterà tutta la fatica, possa creare una primizia e un anticipo di quelli che saranno i cieli nuovi e la terra nuova. Ecco il senso anche di quella frase di Rm 8,19: “l’ardente aspettativa della creazione attende la rivelazione dei figli di Dio”. È come se ci venisse detto che più cooperiamo a rendere la terra il giardino come Dio lo aveva voluto, più quella rivelazione piena si affretta e si anticipa.

“Tu sei l’unico Dio vivo e vero:
l’universo è pieno della tua presenza,
ma soprattutto nell’uomo, creato a tua immagine,
hai impresso il segno della tua gloria.
Tu lo chiami a cooperare con il lavoro quotidiano
al progetto della creazione
e gli doni il tuo Spirito,
perché in Cristo, uomo nuovo,
diventi artefice di giustizia e di pace”.

(Prefazio Comune IX)

 

“Perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te…”

Le parole che Battiato riporta nel brano “La cura”, credo possano essere a buon diritto le parole che Dio Padre ripete a ciascuno di noi facendo eco al profeta Isaia il quale fa dire al Signore “Tu sei prezioso ai miei occhi!” (43,4). Tuttavia, se Battiato ipotizza un prendersi cura come liberazione “da” (“dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via, dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai…”, per citare solo alcune delle realtà cui fa riferimento), Dio il Padre si prende cura di noi “in” (nelle paure, nei turbamenti, nelle ingiustizie…).

Proprio la cura è la cifra a partire dalla quale rileggere tutta la storia della salvezza e proprio la cura è il punto prospettico da cui impostare una pastorale conforme al desiderio di Dio: una pastorale della presa in carico, una pastorale capace di sottrarre il dolore e la fatica alla sua solitudine.

Su non pochi contenitori che custodiscono materiale a rischio è scritto: “Fragile. Maneggiare con cura”. Anche sulla nostra natura umana è impressa con marchio indelebile una scritta simile. La nostra vita è fatta di turbamenti, di inganni, di fallimenti, come canta Battiato. Lui e noi sogniamo un tipo di rapporto in cui finalmente non attraversare più simili guadi. Eppure sappiamo che non è così, almeno finché dura quest’oggi. Chi crede, chi vive non incontra fiumi senza guadi.

Ciascuno di noi è per Dio un essere speciale. Dio non conosce la produzione in serie, siamo tutti pezzi unici, inimitabili. Per questo l’intera esistenza di un uomo è tutto un esercizio della cura in cui portare alla luce le nostre potenzialità nella consapevolezza che nessun sostituto potrà realizzare la nostra missione, la nostra vocazione. E per questo, nelle diverse situazioni in cui il Signore ci chiama a operare, noi facciamo la differenza.

Se all’inizio della creazione coltivare e custodire rappresentano la vocazione originaria dell’uomo, dopo la caduta originale lo sarà il prendersi cura, il trattare ogni persona, ogni cosa, ogni luogo con l’attenzione di chi riconosce in essa il segno del Creatore.

Noi siamo continuamente chiamati a decidere tra lo stile del farsi carico (“i care”, di don Milani) e quello del “me ne frego” (di memoria fascista). Siamo chiamati a passare dal chiederci: “che ne sarà di me se io mi fermo?” a chiederci “che ne sarà di lui se io non mi fermo?”.

 

La cura è un’arte

La parola arte dice intuizione, competenza, illuminazione, attenzione, passione, umanità. La cura non è un protocollo, adempiuto il quale, si è assolto il proprio compito.

In una espressione che la vulgata attribuisce impropriamente a San Francesco, si dice che chi lavora con le sue mani è un lavoratore, chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano, chi, invece, lavora con le sue mani, la sua testa e il suo cuore è un artista.

Indipendentemente dalla paternità del detto, resta vero che la cura come arte è proprio arrivare a tenere insieme testa, cuore e mani (visione olistica della vita) o anche: spirito, anima e corpo.

La vita chiede continuamente l’arte della cura che il più delle volte si realizza attraverso la medicina della misericordia. Tale arte si esercita in ogni frangente dell’umano esistere, dal concepimento fino all’ultimo respiro nel caso della vita umana. Anche quando la medicina arrivasse a dire che “non c’è più nulla da fare”, l’affetto sa che c’è ancora da esercitare una cura, foss’anche soltanto quella del tenere la mano di chi sta spirando.

Il prendersi cura è sempre un atto creativo, un gesto che modifica l’esistente generando bellezza. È un atto rivoluzionario che modifica lo scorrere grigio delle cose con i colori dell’attenzione, dell’ascolto, dell’amore. È, come l’arte, unico, irripetibile, inciso nella storia e nello spazio e come l’arte è un bisogno pienamente umano.

 

Dio all’origine della vocazione alla cura

Quando Dio crea l’uomo e lo pone in mezzo al giardino gli affida un compito ben preciso, quello di coltivarlo e custodirlo (cfr. Gen 2,15). Se da una parte è chiamato a rendere produttiva la terra, dall’altra è suo compito proteggerla facendo sì che la vita sia sempre sostenuta. Tale compito, afferma papa Francesco nella LS, va vissuto da amministratore responsabile non da signore indiscusso.

Alla nascita di Abele che rende fratello Caino, Dio introduce un nuovo legame da viversi in termini di tutela e di custodia. La cosa emergerà in tutta la sua portata (oltre che nella sua dimensione drammatica), allorquando mettendosi sulle tracce di Abele, Dio chiederà a Caino dove si trovi suo fratello. E per tutta risposta Dio farà i conti con una domanda da parte di Caino: “Sono forse il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). Anche se Dio non risponderà con un sì o un no, gli ricorderà che “la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri” (LS, n. 70).

 

Dio modello della cura

Dio non è solo colui che è all’origine della vocazione alla cura ma ne è anche il modello.

Quando Adamo ed Eva si accorgeranno di essere nudi, non trovarono di meglio che coprirsi con delle foglie di fico. Dio, invece, si prenderà cura di loro, cucendo dei vestiti.

Persino su Caino, che pure si era macchiato di una terribile colpa, Dio porrà un segno di protezione perché nessuno lo tocchi.

Che cos’è, inoltre, il riposo del sabato se non l’invito ad avere cura per il creato?

La stessa istituzione del Giubileo ogni 49 anni doveva essere l’occasione per concedere una tregua anche alla terra come pure agli schiavi e a quanti avessero contratto debiti. Tutto doveva ritornare a quando era uscito dalle mani di Dio. Doveva essere il tempo in cui con più determinazione prendersi cura degli indifesi così che nessuno fosse bisognoso.

Che cos’era l’invito a lasciare parte dei prodotti della terra nei campi se non l’invito a prendersi cura di chi non poteva provvedere da solo a se stesso?

Tutta la letteratura profetica e quella sapienziale dei salmi richiameranno a gran voce il diritto di asilo dei poveri presso il Signore a fronte di chi pensa, invece, di onorarlo solo con riti fini a se stessi e perciò vuoti.

“Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?” (Is 58,6-7).

 

La cura si fece carne

Dio non si accontenta solo di ammonire, di indicare, di richiamare. “Nella pienezza dei tempi” sceglie di farsi carne in Gesù. Potremmo a buon diritto tradurre ciò che Gv riporta in 1,14 così: “la cura si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.

Quando entrerà nella sinagoga di Cafarnao proclamerà il brano di Is 61 attraverso il quale stabilirà il suo programma pastorale, un piano che non riguarda Dio anzitutto ma l’uomo:

  • desidera un uomo capace di gioia (proclamare ai poveri la lieta novella),
  • un uomo capace di esprimersi in libertà (ai prigionieri la liberazione),
  • un uomo capace di vedere, di scrutare le profondità (ai ciechi la vista),
  • un uomo capace di rimettersi ancora una volta in cammino (rimettere in libertà gli oppressi).

L’umanità con cui Gesù ha a che fare è sempre una umanità bisognosa di cure: poveri, malati nel corpo e nello spirito, peccatori, gente chiusa e impermeabile al suo annuncio. Egli stesso dirà che “non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati” (Mt 9,12). È lui il pastore che si prende cura anche delle pecore che non sono del suo ovile. È lui il samaritano che si fa carico dell’uomo mezzo morto lasciato sul ciglio della strada.

In At 10,38 Pietro afferma di Gesù che “passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui”.

 

La cultura della cura nella vita dei discepoli

Sin dall’inizio il tratto caratteristico dei suoi discepoli fu proprio il fatto che tra loro nessuno fosse bisognoso: ciascuno, parafrasando Gal 6,2, portava i pesi degli altri. Proprio la capacità di farsi carico della vulnerabilità era stata scelta dal Signore come l’elemento che stabiliva se nella vita si fosse avuto contatto con lui o meno (cfr. Mt 25).

La vita è benedetta quando è stata declinata alleviando fatiche e lenendo dolori, quando cioè, si è accettato di compiere l’esodo più difficile: dalla terra dell’egoismo a quella del farsi carico. E non per delega (come accade quando ci si ferma alla disamina e all’accusa) ma per coinvolgimento personale. Nessun altro al mio posto.

Lungo i secoli l’attenzione ai poveri, agli orfani, ai naufraghi, ai carcerati, ai malati, ai piccoli divenne il compito prioritario della comunità cristiana che sopperiva tante volte alle mancanze di un regno o di uno stato che lasciava ai margini non poche categorie di persone. Pensiamo a tutto il fenomeno degli istituti religiosi nati proprio per far fronte alle varie emergenze.

Ben a ragione don Orione dirà ai suoi figli: “Alla porta del Piccolo Cottolengo non si chiederà ad un uomo che entra se ha un nome, una religione… ma solamente se ha un dolore”. Il bisogno dell’altro, chiunque egli sia, è appello a me perché non resti chiuso al suo grido.

I cristiani hanno avuto sempre un sensore particolare per intercettare le nuove istanze e vi hanno provveduto sempre in modo profetico (proprio secondo quella coscienza cui si faceva riferimento ieri sera).

 

La grammatica della cura

Proprio il servizio assiduo e concreto da parte dei discepoli nei confronti della vulnerabilità dei più bisognosi, ha fatto sì che si sviluppasse una vera e propria grammatica della cura che è fatta di questi temi: la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà con i poveri e gli indifesi, la sollecitudine per il bene comune e la salvaguardia del creato.

  • Dignità della persona

Il concetto di persona umana ha le sue radici proprio nell’esperienza cristiana. Esso non è mai inteso secondo accezioni individualistiche ma relazionali. Essendo relazione, la persona necessita di inclusione non di esclusione, chiede di essere riconosciuta nella sua dignità inviolabile, non di essere sfruttata.

La persona umana non è mai uno strumento ma sempre un fine.

L’uomo non è destinato a vivere solo per se stesso, ma è fatto per la comunione con gli altri e con Dio. L’uomo cresce non sulla tomba della comunità, bensì in una comunione in cui persegue la propria crescita con senso di partecipazione e di responsabilità sociale.

  • Sollecitudine per il bene comune

La soluzione ai mali del mondo si troverà quando ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica, ecologica verrà gestito ed orientato verso il bene comune che ha come punto focale il compimento umano delle persone. Pertanto, i nostri piani e sforzi andranno sempre considerati ponderando le loro conseguenze, positive o negative, sulle condizioni sociali che permettono ai singoli, alle famiglie, ai gruppi di conseguire o no la loro perfezione umana. Il vero bene per ciascuno dipende dalla realizzazione del bene che è bene di tutti e non solo dalla realizzazione di beni individuali.

  • Solidarietà

Non basta prendere atto di essere tutti interconnessi e interdipendenti. È necessario scegliere di farsi prossimo desiderando e promovendo il bene dell’altro.

  • Salvaguardia del creato

La salvaguardia del creato va pensata non come ad un atto disgiunto dalla cura delle persone, specie dei bisognosi e dei più piccoli. La salvaguardia del creato è possibile quando si ascolta, allo stesso tempo, il grido dei poveri, quando ci si prende cura delle persone, della loro educazione, della loro vita, specie se indifesa. Senza la cura di un’ecologia umana non è possibile un’ecologia ambientale.

 

Imparare a prendersi cura

La cura abbraccia ogni aspetto della nostra esistenza chiedendo a ciascuno di dare il meglio di sé, dispiegando le proprie risorse umane: forza, perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia.

La cura si nutre di prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza.

Imparare a prendersi cura gli uni degli altri non è un principio altisonante e retorico, ma la proposta di praticare il gesto minimo che dà volto di fraternità alla società, che coltiva l’arte del buon vicinato, che vive la professione e il tempo libero come occasioni per servire al bene comune. Ciascuno trova la sua sicurezza non nell’isolamento, ma nella solidarietà.

Imparare a prendersi cura gli uni degli altri è anche un programma di resistenza contro le forme di disgregazione sociale insinuate dalle seduzioni dell’individualismo, dell’indifferenza, dell’interesse di parte, dagli interessi di quel capitalismo senza volto e senza principi morali che vuole ridurre le persone a consumatori, le prestazioni sanitarie e assistenziali a investimenti, l’intero pianeta a fonte di guadagni praticando uno sfruttamento scriteriato.

 

Salus animarum e conversione ecologica integrale

Il primo a usare il termine conversione ecologica fu san Giovanni Paolo II il 17 gennaio 2001 quando, parlando del rapporto dell’uomo con il creato, ebbe a dire che l’uomo ha purtroppo inteso tale relazione in termini assoluti e non già ministeriali, deludendo in questo modo l’attesa divina.

“Occorre, perciò, stimolare e sostenere la ‘conversione ecologica’ che… comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda” (LS 217).

In LS 220, papa Francesco indica anche quali sono gli atteggiamenti e i cambiamenti dentro di noi che possono derivare da una conversione ecologica:

  • gratitudine e gratuità (riconoscere che il mondo è dono d’amore di Dio)
  • generosità nel sacrificio di sé e nelle opere buone
  • l’amorevole consapevolezza di una comunione universale con tutto il creato
  • maggiore creatività ed entusiasmo nell’affrontare i problemi del mondo
  • un senso di responsabilità basato sulla fede.

Dalla tradizione cristiana abbiamo ereditato una formula pastorale indicata come salus animarum solitamente indicata come il fine dell’azione pastorale della Chiesa e solitamente attribuita al parroco in cura d’anime.

Questo concetto indica un vero e proprio stile da fare proprio come cristiani tutti. Le nostre comunità sono chiamate ad essere vere e proprie case di cura, luoghi in cui sperimentare il conforto della comunione e la tenerezza della prossimità. In una casa di cura che si rispetti non ci si accontenta di ricette preconfezionate ma si ha attenzione per auscultare il respiro e il cuore dei fratelli e delle sorelle.

Gesù tocca i lebbrosi, i ciechi, la mano della suocera, i bambini, la bara del figlio della vedova di Nain. Persino l’albergo di cui narra la parabola del buon samaritano fu trasformato in luogo di cura.

Siamo noi l’oste a cui egli affida il compito di aver cura di tutto ciò che la Provvidenza di Dio ci ha affidato, dalle persone a ogni creatura.