La liturgia di questo sabato è davvero parola di speranza per ciascuno di noi. Essa contiene, infatti, l’annuncio di un Dio che si fa vicino a chi sembrerebbe irrimediabilmente perduto. Un Dio che non prende le distanze, che non ha paura di restare contaminato dal contatto con chi nella vita è un irregolare. Questa, però, è allo stesso tempo lieta notizia o pietra di scandalo. Dove mi colloco? Tra coloro che ritengono di essere bisognosi di questo annuncio di misericordia (“e di questi il primo sono io”, griderà Paolo) o dalla parte dei “mormoratori”, di coloro, cioè, che non possono accettare che Dio sia così come il Figlio Gesù lo ha manifestato? La risposta a questa domanda è ciò che fa stare in piedi o cadere per noi la possibilità di una vita cristiana: non è dato altro modo.
Oggi, la Parola non ha paura di annunciarci che anche Dio si perde. Certo, immediatamente, a perdersi il figlio minore. Ma in realtà anche Dio si perde e si perde dietro a uno solo!
Viene un giorno per tutti noi o forse è già venuto in cui avvertiamo che tutto a casa ci sembri asfittico. Viene un giorno o forse è già venuto in cui sentiamo il bisogno di andare a cercare altrove uno sbocco di felicità. Quello che abbiamo, la casa, il padre, Dio, non ci basta. E ciò non è una bestemmia. Neppure Dio basta! E sa bene che non può essere l’unico sbocco geloso di tutto il nostro cuore: quando ci chiede di essere amato con tutto il cuore non ci chiede mica di essere amato esclusivamente. La totalità dell’amore non vuol dire certo esclusività.
Un bel giorno il figlio grida: “Qui soffoco”. L’essere insoddisfatti non è certo una colpa: dietro quella insoddisfazione c’è la sincera consapevolezza che ciò che hai non ti basta. Sei fatto per qualcos’altro. Per cui quella insoddisfazione e quel tuo gesto di andar via di casa può essere persino un preannuncio di grazia. Il figlio minore, paradossalmente, comincia a convertirsi quando incomincia a staccarsi da casa; incomincia a camminare verso il Padre lo stesso giorno in cui s’accorge dell’incompatibilità nei suoi confronti. È vero che talvolta il gesto di rivolta non è che il preludio di una dichiarazione d’amore.
Dove sta il problema? Il problema risiede in quello che io intendo per felicità. Il figlio minore è mosso da quello che la psicologia definisce il principio di piacere. Non sa che tutte le cose hanno un fondo e che il fondo di tutte le cose è il vuoto. Quello che tu cerchi non è qualcosa, ma qualcuno: “Signore, ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto…”.
Il prodigo non sa che certo si può finire persino a contendere le carrube con i porci e vorresti non sentire più l’inquietudine per quella casa che hai lasciato alle spalle: puoi rubare le ghiande dei porci, ma non puoi accontentarti, come i maiali, delle sole ghiande. È forse una crudeltà questa? Credo sia, invece, la salvezza. Non c’è attributo negativo datomi dalla storia, dalla sorte, dalle tradizioni, dalla cultura, più forte della realtà fondante: l’essere figlio. Non credente ma figlio; cattivissimo, ma figlio; peccatore, ma figlio.
Certo, egli non torna a casa per amore, torna per fame: ma a Dio non importa il motivo per cui ci rimettiamo in cammino. Quello che conta è stare in cammino. Una volta a casa è l’incontro con quel padre che è l’uomo delle esagerazioni, a fare il resto: non si comporta da anziano saggio, ma si abbandona ai sentimenti senza controllo. Egli sa che non c’è nulla e nessuno di definitivamente perduto.
“Tu ci salvi lasciandoci perdere: tu ci ritrovi lungo ogni smarrimento perché su ogni strada c’è l’indefettibile segno del tuo sangue…per di qua passa l’amore” (Mazzolari). Un amore scandaloso, quello di Dio, perché non è misurato sulle prestazioni. Infatti, il figlio maggiore recriminerà: “Ecco io ti servo da tanti anni e tu…”. Questo amore incondizionato lo scandalizza. Aveva finito per chiudere l’amore del padre nella gabbia dei calcoli di una giustizia tutta umana: a tanto tanto, a meno meno, secondo una rigida proporzionalità. Ma il Padre non lega il rapporto alle prestazioni. Il padre misura sul legame, sul volto e non c’è fuga o meriti che tengano. Questo Padre non è certo un modello di giustizia o di diritto e non vuole esserlo. L’atteggiamento del padre consegna un modo diverso di stare nella vita perché la giustizia non basta ad essere uomini. La giustizia è un atto di equilibrio, ma l’amore, il dono, il perdono, niente di tutto questo è equilibrato. Se l’amore non è eccessivo non è amore. Anzi, la giustizia e il diritto, da soli, sono il massimo dell’ingiustizia (summum ius summa iniuria). Dio, in un certo senso è ingiusto: fortunatamente! Dio non ti ama perché tu sei buono, ma il suo amore è la condizione perché tu possa essere buono. Ecco che cos’è la misericordia: l’amore che va oltre ogni giustizia. Gesù spezza la legge dell’equilibrio, spezza l’eterna illusione del dare e dell’avere, spezza il pareggio contabile come ideale etico e ci introduce nel campo dell’eccessivo, in un vangelo da Dio.
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Dal Vangelo secondo Luca (15,1-3.11-32)
In quel tempo, si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».