Il tempo che precede il Natale – lo confesso – è il momento in cui mi faccio più attento al modo in cui noi cristiani proviamo ad accostare quello che il buon catechismo della nostra infanzia ci aveva insegnato essere uno dei misteri principali della nostra fede: che, cioè, Dio, abbia scelto di farsi uomo …
Il tempo che precede il Natale – lo confesso – è il momento in cui mi faccio più attento al modo in cui noi cristiani proviamo ad accostare quello che il buon catechismo della nostra infanzia ci aveva insegnato essere uno dei misteri principali della nostra fede: che, cioè, Dio, abbia scelto di farsi uomo assumendone la condizione di fragilità e di limite, la “carne” per essere più esatti (Gv 1,14).
Tra stati whatsapp, articoli apparsi sul web, iniziative e interviste televisive è tutto uno sperticarsi agitato nel tentativo di “salvare” ogni anno il Natale dal rischio di vederlo travisato perché ridotto a occasione di spese, regali e grandi scorpacciate finendo addirittura – così diciamo – “di festeggiare escludendo il festeggiato”. Della serie “sarà Natale se…”.
Tutti a narrare – legittimamente, per carità – il Natale che vorrebbero, i desideri che anelerebbero vedere realizzati e questo dagli scenari globali della macrostoria a quelli più circoscritti del civico dove abitiamo.
Per me è un Natale diverso, ammesso che ce ne sia uno uguale a quelli passati. Se dovessi accodarmi al coro di chi snocciola la sua lista dei desideri, avrei anch’io da indicare il Natale che vorrei o, meglio, per me sarebbe Natale se potessi riportare indietro le lancette a prima del 7 giugno allorquando mio fratello ha scelto di chiudere improvvisamente la sua avventura umana. Ma così non è. E penso non lo sia per tanti che attraversano analoghe situazioni di prova, di lutto, di malattia e, comunque, di sofferenza.
Oggi, con più evidenza, mi rendo conto che non sono io a stabilire in che modo debba ancora avvenire il Natale del Signore nella mia vita. Proprio perché è “del” Signore, sono chiamato a riconoscere quale grembo di ospitalità sono chiamato a mettergli a disposizione. E quest’anno il Natale “del” Signore nella mia vita non si compie in chissà quale clima rarefatto pensato ad hoc: la sua greppia è questa mia situazione. E solo se acconsento a questo Natale, posso scoprire che “noi siamo fatti per nascere molteplici volte e non per morire” (Hannah Arendt). Forse che esistono nascite indolori?
L’antico profeta Isaia, quando sollecitava il popolo d’Israele a preparare le vie del Signore invitava a riconoscere quel modo tutto personale attraverso il quale il Signore avrebbe scelto di rivelarsi. Il rischio tutt’altro che remoto, infatti, da allora fino a noi, è sempre quello di attenderlo su vie che non sono sue ma frutto dei nostri desideri se non, talvolta, delle nostre proiezioni.
È per questo che non me la sento di commentare negativamente chi, a una lettura superficiale, potrebbe sembrare ai margini di questa festività perché, forse, ha persino dimenticato il motivo per cui si festeggia.
All’acqua della rivelazione di Dio, infatti, ognuno attinge con la propria tazza, secondo le proprie capacità. E non credo questo faccia problema al festeggiato se il primo Natale, stando a quello che ci riporta il vangelo, non è avvenuto in modo tanto diverso. Anzi. Quella volta c’era persino chi sapeva con esattezza momenti e luoghi e non per questo decise di muoversi per accorrere a contemplare la luce apparsa nella notte del mondo. Lo fecero, invece, pastori e magi, quelli che noi bisognosi di categorizzare ogni cosa avremmo definito “lontani”, da un punto di vista sociale e morale, “irregolari” o diversamente credenti, come si dice oggi.
Davvero singolare il modo di agire di Dio: se all’inizio, infatti, le cose si risolsero con un sonoro rifiuto e un non malcelato riconoscimento (salvo qualche rara eccezione, s’intende), non è che alla fine siano andate in modo diverso (salvo qualche rara eccezione anche in questo caso). E non è che in mezzo ci siano stati chissà quali segni di adesione convinta e sincera!
Di fatto, forse senza neppure esserne consapevoli, è come se nel più profondo del nostro cuore ci sia un organo, qualcosa, che voglia convincerci che c’è una strada anche per me, che la mia piccolezza o lontananza non siano un impedimento, che fosse anche per un’ora soltanto, gli auguri che ci scambiamo, i doni che condividiamo, la comunione che sperimentiamo alla stessa mensa o, per chi è credente, la preghiera che affiora spontanea dal nostro cuore, sono germi di possibilità nuova proprio come la tregua di Natale del 25 dicembre 1914 quando, “abbiamo soltanto approfittato di quel giorno di quiete, guadagnando tempo sulla morte”, secondo la bella testimonianza di un fuciliere scozzese scritta l’8 gennaio 2015.
Guadagnare tempo sulla morte. Ecco il compito che ci attende, tutti.
Di fatto l’annuale ricorrenza dell’Incarnazione del Signore, con più o meno lena, riattiva la disponibilità a recuperare aspetti di noi troppo spesso rimossi o dimenticati (ci ricordiamo anche di chi magari non sentiamo per un anno intero). E, a dispetto di momenti di difficoltà, ricorda che c’è altro per cui vale la pena mettersi in gioco e spendersi.
A noi il compito di dare corpo a quanto è solo primizia e caparra di possibilità nuove tutte ancora da esplorare e da far maturare non senza il nostro personale apporto.
Il Natale che (non) vorrei è quello che mi invita a misurarmi con il qui e ora della mia storia, qualunque sia il suo volto e la sua condizione, iniziando a prendermi cura di chi e di cosa è stato affidato alla mia premura.
Un abbraccio a te che hai avuto la pazienza di arrivare sino in fondo a questo scritto, anche questo segno del tuo desiderio di concederti del tempo e di accettare, forse, di dare concretezza a quanto si muove nel tuo cuore in questi giorni.
Antonio