Avvento
Abbiamo sempre pensato l’Avvento come il tempo di più immediata preparazione al Natale. L’Avvento, però, è sia memoria della sua prima venuta (l’Incarnazione) attesa, sia preparazione alla sua seconda venuta (la Parusia alla fine del tempo).
“Al suo primo avvento nell’umiltà della condizione umana
egli portò a compimento la promessa antica
e ci aprì la via dell’eterna salvezza.
Quando verrà di nuovo nello splendore della gloria,
ci chiamerà a possedere il regno promesso
che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa”.
Così ci fa pregare la Chiesa nel Prefazio I di Avvento e così ci invita a credere
L’Avvento torna ogni anno perché impariamo a cogliere il senso della storia non a partire dalla semplice successione cronologica (sarebbe soltanto cronaca, appunto) ma a partire dal suo compimento e dalla sua piena realizzazione che avverrà quando ciascuno comparirà davanti al Signore. Conoscere la meta significa imparare a discernere quale percorso conduce a quell’approdo: un percorso non vale l’altro.
La meta dell’Avvento, perciò, non è il Natale ma la Pasqua.
Mi permetterei, quindi, di invertire i due termini del titolo di questo incontro: non già la cura e l’attesa ma l’attesa e la cura.
Noi siamo fatti per un incontro, quello con il Signore, e tutti gli incontri della nostra vita sono primizia e sacramento di quello definitivo con lui.
“Ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo,
perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore
la beata speranza del suo regno” (Prefazio II di Avvento).
Quando si aspetta qualcuno il suo arrivo non è mai improvviso; l’ospite può essere in anticipo o in ritardo, ma non giunge mai inatteso!
Comincerei, allora, con una domanda: il Dio che attendo, l’incontro per cui so di essere fatto, deve colmare un’attesa o un’aspettativa? L’aspettativa nasce da un bisogno che l’altro è chiamato a colmare e volentieri sfocia nel possesso dell’altro e, quando ciò non accade, è la delusione, la frustrazione. L’attesa, invece, nasce dal desiderio dell’altro e sfocia nell’accoglienza dell’altro così com’è, senza volerlo manipolare.
La mia è attesa o aspettativa?
Aspetto sabato
È un po’ quello che accade al piccolo Pepinot del film “Les Choristes”, il più piccolo del collegio, sempre messo sotto pressione da tutti i compagni.
Pepinot è in collegio ed è orfano ma lui, come tutti i suoi compagni di scuola aspetta sabato anche quando non è sabato, resta per delle ore sul cancello in attesa della mamma e del papà che non verranno mai, eppure lui attende anche se tutti gli dicono che è inutile, che perde tempo ad aspettare…ma un giorno arriva qualcuno che si ferma a guardarlo e semplicemente fa una domanda:
“Ciao, sei solo? – sì.
Che ci fai lì? – Aspetto sabato.
Ah. E perchè? – Il mio papà mi viene a prendere.
Però non è sabato oggi…”.
Lui aspetta sabato…sabato….
Io chi aspetto? Cosa aspetto? Come aspetto? O, forse, più realisticamente: aspetto ancora qualcosa, qualcuno?
“La vita avanza e progredisce grazie ad assenze che ci fanno vivere” (Rilke). Noi viviamo di assenze, grazie alle quali scopriamo una chiamata ad uscire da noi e a cercare altro, oltre quello che pure già abbiamo raggiunto.
Vegliare
Il Vangelo è come incastonato tra due verbi. Quando Gesù è presente l’invito rivolto è: credere! quando sta per andarsene o è assente l’invito diventa: vigilare!
La stessa preoccupazione e insistenza che Gesù metteva, all’inizio del suo ministero, per richiamare l’attenzione sulla vicinanza del Regno e sulla necessità di decidersi per esso, la metterà nell’inculcare l’importanza della vigilanza. Infatti, le parabole proprie degli inizi sono quelle del seme, del lievito, del tesoro, della perla mentre quelle tipiche della fine sono le parabole del portiere, dei talenti, delle dieci vergini.
Cosa c’è dietro questo invito a vigilare?
Il vigilare non è affatto un elemento marginale della vita cristiana, anzi! Esso esprime tutta la tensione verso il futuro di Dio, tensione che va coniugata con l’attenzione e la cura per il qui e ora della nostra storia. È l’attesa il motivo della veglia. Si veglia in nome dell’amore.
Il rapporto con il tempo e con il limite
Ma prima di prendere in esame le motivazioni del vigilare vorrei che ci soffermassimo su come l’uomo vive il suo rapporto con il tempo e con il limite (poiché la dimensione temporale meglio evoca l’esperienza di finitezza di ciascuno di noi).
Spesso si vive nei confronti del tempo un atteggiamento ansioso: chi non vorrebbe dilatare a dismisura il nostro tempo nell’illusione di poter far fronte a tutte le scadenze che ci incalzano? Se solo avessimo una giornata di 48 ore!
Tuttavia la nostra ansia non nasce solo dal fatto che non sempre nel tempo a disposizione riusciamo a compiere quanto vorremmo, ma radica nella percezione che il senso della vita dipende proprio dal tempo. Vivere vuol dire avere tempo, non averne più equivale a morire. L’angoscia, l’ansia e un conseguente bisogno di fuga, sono generati dal fluire inesorabile del tempo. Il tempo che passa è per noi una continua rivelazione del nostro essere segnati dal limite: perciò proviamo paura. E allora? Meglio difendersi.
I meccanismi di difesa per sfuggire al tempo che scorre sono principalmente due:
- l’ostentare di essere padroni del tempo
- l’evadere rassegnato secondo la logica del tirare a campare.
- Nel primo caso, c’è una sorta di sfida nei confronti del tempo: spremere fino all’osso il momento presente, utilizzare tutti gli attimi a disposizione. Non a caso abbiamo coniato espressioni proverbiali come: “il tempo è denaro”, “cogli l’attimo!”, “quello che lasci è perduto”. Si tratta di un meccanismo di difesa perché la logica che vi soggiace è: se è vero che il tempo passa, fugge, rincorriamolo per averne il più possibile a nostro vantaggio. Se è vero che ci incalza, facciamo in modo di ricavarne tutte le soddisfazioni possibili prima che sia troppo tardi.
- Se il tempo è denaro, avere sempre più denaro ed essere liberi di spenderlo mi convincono di essere padrone del tempo arrivando magari a convincermi che il tempo degli altri vale poco, solo perché io posso comprarlo a mio favore.
- Un’altra modalità di dimostrarsi padroni del tempo è l’ambizione del dominio, riuscire ad ogni costo così da avere l’impressione di durare a dispetto del tempo.
- E poi la “cosmesi” della morte: non è un caso che la nostra società emargini tutte le situazioni limite (la malattia, la vecchiaia, lo stesso morire) come estranee alle condizioni della vita ordinaria.
- C’è anche un altro meccanismo di difesa per esorcizzare l’angoscia del tempo che ci sfugge dalle mani: dal momento che il tempo fugge in maniera inesorabile, è inutile lottare ed è meglio annegare nell’evasione.
- Un modo per togliere la disperazione di chi coglie la fuga del tempo potrebbe essere il suicidio, ossia l’anticipo drastico della fine, che se non sempre assume questo volto preciso, si presenta nei modi di una vita sostanzialmente spenta. La vita sopravvive alla sua fine cronologicamente ma non qualitativamente.
- Essere disponibili per ogni esperienza, giudicandola unicamente in base alle sensazioni più o meno forti che potrebbero derivarne; osare fino al limite per sentirsi un po’ speciali. L’importante è non pensarci: è la ricerca di un piacevole stordimento che renda insensibili a ciò che è brutto e penoso. Per contro, tutto ciò che dice formazione personale, applicazione al lavoro, impegni familiari, vincoli sociali, tempi inevitabilmente segnati dalla banalità, dalla fatica, dal rischio, da tensioni e sofferenze, sono sistematicamente banditi. Meglio non guardare in faccia certe situazioni.
Esiste un altro modo di affrontare il problema? Certo. Ed è il vigilare.
La vigilanza non è solo un modo sapiente di vivere l’esistenza. Per noi credenti scaturisce dal mistero stesso di Cristo e dall’annuncio che è racchiuso in quella parola che costantemente la Liturgia ci ripropone: “Tornerà!”. Dio viene dal futuro! Per questo, don Tonino Bello amava ripetere che “non può recare liete notizie chi non viene dal futuro!”.
La vigilanza prende valore dal motivo per cui si veglia. E la motivazione è il Signore stesso a darcela: “Vegliate dunque perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (Mt 24,42). La nostra storia ha un traguardo. Il tempo non è un continuo girare a vuoto su se stesso. La nostra concezione del tempo non è circolare (corsi e ricorsi storici), ma lineare: ha un punto di partenza e un punto di approdo. Per Gesù ciò che conta non è il quando ciò avverrà, ma il fatto che avverrà. Giustamente qualcuno ha paragonato il credente ad un girasole. Il girasole durante il giorno, quando il sole è alto nel cielo, è rivolto verso il sole, si converte continuamente a lui. Quando il sole tramonta e scompare, si volge nella direzione da dove sputerà il sole e sta tutta la notte così, in attesa. Gesù chiede ai suoi discepoli di stare proprio così: con il cuore e il desiderio là da dove egli riapparirà.
La Chiesa esprime questa duplice certezza della venuta e della presenza del Signore con il grido: “Maranathà”. Un grido che di per sé ha due sfumature diverse, a seconda di come viene divisa la parola nella pronuncia. Pronunciato marana-thà significa “Vieni Signore!”, pronunciato maran-athà significa “Il Signore viene” o “Il Signore è qui!”. La salvezza già in atto nella nostra vita è ciò che fonda la vigilanza.
Avere cura: l’attenzione all’”Intanto”
Come vivere il tempo come luogo in cui il Signore bussa alla porta della nostra vita?
Innanzitutto, mi sembra opportuno precisare, che il vivere perennemente in attesa del ritorno del Signore non significa evadere dalla storia, ma anzi è vivere la storia a partire dall’orizzonte verso cui è incamminata.
Vigilare significa perciò stare desti, avere cura, rimanere all’erta, non lasciarsi sorprendere dal sonno quando il pericolo incombe o sta per accadere qualcosa di straordinario. Significa badare con amore a qualcuno, custodire con premura qualcosa di prezioso, attenzione a ciò che è delicato e fragile, attenzione ai germogli. Vuol dire diventare perspicaci, essere svegli nel capire ciò che accade, acuti nell’intuire la direzione degli eventi, preparati a fronteggiare l’emergenza.
Vigilare è la capacità di ritornare a prendersi il tempo necessario per aver cura della qualità della vita che non sia una qualità puramente commerciale o clinica. Il tempo per imparare a riconoscere il significato delle nostre emozioni, i nostri impulsi per non rimuoverli troppo in fretta nel tentativo di anestetizzare l’eventuale disagio che ci procurano e sminuendo la profondità dell’esperienza nella quale essi potrebbero introdurci.
L’abitudine al consumo superficiale dei sentimenti ci rende fragili; assegnare all’immediatezza delle emozioni un ruolo decisivo nella nostra identificazione e perciò nel nostro stile di vita (“mi sento così, faccio così, decido così”) fa sì che deleghiamo alla pressione delle circostanze un potere assoluto sulla nostra storia: qualcun altro o qualcosa d’altro deciderà per noi.
A ciascuno il suo compito
Quando l’evangelista Mc annuncia che il Signore, prima della sua partenza, ha affidato a ciascuno il suo compito, parla del tempo che ci è dato come il tempo della fiducia. Anche a me è stato affidato un compito perché anche a me è stata data fiducia. Un compito per realizzare il quale mi è stato dato anche un potere, cioè un’energia, una forza, una capacità. Ecco cos’è la vita: l’occasione per far germogliare la fiducia accordata.
Quale consapevolezza mi abita della fiducia a me accordata e del compito e dell’energia a me affidati? Anche Dio dunque vive di attesa: quella di vedere esercitata la cura nei confronti di ciò che è stato affidato alla nostra cura.
Dio non tornerà per il rendiconto ma per portare a compimento, per accordare ulteriore fiducia, maggiorata stavolta. Tornerà per rovesciare le parti: per farci mettere a tavola e per passare lui stesso a servirci (Lc 12,37). Dio aumenta il credito di fiducia a chi si fa servo di esistenze spese a favore di altri.
Ma c’è un tornare di Dio già ora già qui: non sai se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino. Non immediatamente riconoscibile questo ritorno perché non nel segno dell’evidenza manifesta. Nell’imprevisto è nascosto un segreto che va scoperto.
Quando Gesù rivolge l’invito alla veglia ai suoi discepoli, siamo nell’imminenza della passione, di quell’evento, cioè, che manifesterà davvero il volto di un Dio sorprendente e che immediatamente è difficile da riconoscere come tale perché “non ha bellezza, né apparenza”. Il Dio sorprendente della passione è lo stesso Dio sorprendente dell’incarnazione, “un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia”.
Noi sappiamo che proprio l’evento della passione metterà in primo piano la non vigilanza del servo che si addormenta nelle figure di Pietro, Giacomo e Giovanni; la non vigilanza del servo che non riesce a riconoscere, come Pietro, il suo padrone e perciò afferma di non conoscerlo; la non vigilanza del servo che lo tradisce, come Giuda, e cerca altri padroni che lo paghino subito e meglio.
Dall’attesa all’atteso: ecco il passaggio da compiere per nulla scontato. Per quanto l’attesa sia colma di desiderio, di speranza, non sempre l’atteso corrisponde all’attesa.
Lo stesso Giovanni sarà chiamato a uscire dal suo schema di precomprensione quando scoprirà che l’atteso che pure aveva annunciato, operava diversamente rispetto alla sua attesa. Per questo è necessario preparare la via, ossia prepararsi a riconoscerlo sulla strada per la quale vorrà venire in mezzo a noi.
Gesù non è forse l’imprevisto per la samaritana? Non lo è per Zaccheo che si credeva tranquillo su quell’albero di fortuna o per Matteo che se ne stava al banco delle imposte o per quanti altri di cui le sorprese del cammino sono rimaste nascoste? L’imprevisto, ovvero, il modo attraverso cui Dio ci visita. Già: perché a tutte le ore succede qualcosa.
Quel padrone torna incessantemente e tuttavia non viene riconosciuto perché torna sempre trasformato dal viaggio. Mt 25: quando Signore? Il viaggio lo ha rivestito della carne dell’umanità. Egli viene sempre attraverso “il varco di umanissime cose nostre, che poi sono anche sue”.
Se non c’è, dunque, un momento preciso, già fissato, per il ritorno del Signore, vuol dire che ogni istante conta, non esiste mai un tempo irrilevante.
Il “mentre” ha la stessa rilevanza del compimento.
E quella che per noi è soltanto una successione cronologica per Dio è una precisa occasione di salvezza e di misericordia.
Torna nell’uomo che tu incontri, soprattutto quello segnato dalla fragilità.
Torna incessantemente e instancabilmente anche in un tempo che noi uomini di Chiesa continuiamo a definire secolarizzato, quasi non abbia nulla a che fare con Dio. E ci sbagliamo di brutto. Per questo l’Avvento non è tempo di preparazione all’Incarnazione, anzitutto, ma tempo per prepararsi a riconoscere le sembianze sotto le quali egli fa ritorno.
Che bello che la liturgia non ci ponga subito di fronte al compimento! A voler dire che essa conferisce diritto di parola all’intravedere, all’intuire, al percorso non meno che alla meta. Diritto di parola ai travagli, alle gestazioni, chiedendoci di starci a contatto, di non bypassarle.
Non siamo più abituati a un simile linguaggio: basti pensare alla risonanza che ha per noi il week end o le vacanze: il tempo sottratto alle occupazioni esercita su di noi non poco fascino, ci sembra l’unico tempo sensato. E, invece, la liturgia riscatta anzitutto la dimensione dell’intervallo, la dimensione del mentre, dell’intanto, sollecitandoci ad avere la capacità di frapporre una pausa, una sorta di sospensione tra le nostre richieste e la pretesa di aver immediatamente la loro gratificazione. Imparare ad attendere o, meglio, imparare a vivere attendendo. La vita, la nostra vita, infatti, conosce anche il tempo del desiderio inappagato, il tempo del non ancora.
In questo tempo del desiderio inappagato siamo costretti a chiederci cosa o chi stiamo desiderando in realtà, ammesso che ancora cerchiamo qualcosa o attendiamo qualcuno. A cosa è legato il nostro cuore se è attaccato a qualcosa.
L’intervallo è occasione per apprendere che la vita è sempre nel segno dell’oltre, di un compimento ancora da attendere e preparare. A contatto con l’intervallo, con il mentre, il frattanto, appunto, che nondimeno è già primizia e caparra e possibilità di una vita compiuta.
Se la sua venuta è imprevedibile, l’invito è a stare nella vita nella capacità di intercettare e riconoscere i passi e ogni benché minimo rumore che accenni a un suo possibile ritorno. È ovvio che questo atteggiamento è possibile assumerlo non perché gli occhi sono capaci di stare svegli ma perché il cuore è ancora capace di non rassegnarsi all’assenza.
“Chi guarda avanti dieci anni pianta alberi, chi guarda avanti cento anni pianta uomini…. E chi guarda avanti solo dieci minuti piantagrane”.
Un’ultima immagine: quella del portinaio. Non poteva trovarne una migliore.
A lui è chiesto di vegliare perché non accada che la sicurezza di casa diventi soffocamento e che si muoia per eccesso di tutela. A lui è chiesto di discernere che cosa significhi misurarsi con il fuori casa, cosa voglia dire assaporare aperture e sconfinamenti, quali ricchezze si profilano all’orizzonte. La porta non è fatta solo per rimanere chiusa e perciò per escludere. Essa è fatta anche per accogliere, “per acconsentire invece che per respingere”.
Fare amicizia con Noè
Lo abbiamo sempre pensato come una persona fisica, concreta. Noè, però, non è un uomo collocato in un tempo e in uno spazio circoscritto. Noè è uno stile, è un atteggiamento, un modo di stare al mondo se davvero non vuoi essere fagocitato da quel diluvio quotidiano che si abbatte non una volta ma infinite volte nella tua vita. Noè non è il raccontino devoto da tramandare ai piccoli a catechismo.
Stare al mondo come Noè non vuol dire essere risparmiati dal diluvio della vita ma imparare a mettere in salvo tutto ciò che è seme di nuove opportunità. Quando nessuno si rende conto di quello che sta accadendo (“non si accorsero di nulla”, registra amaramente il vangelo), c’è qualcuno che mette al riparo piccoli germogli di nuove possibilità. L’arca di Noè non arresta la tragedia ma la attraversa senza essere inghiottita. Ci sono dei momenti in cui, messo in salvo ciò che devo custodire, devo poi chiudere la porta se non voglio far sì che perda ogni cosa. Cosa mettere in salvo e qual è l’arca che può farmi attraversare questo momento?
Fare amicizia con Noè significa non accontentarsi della sopravvivenza (mangiavano, bevevano…) ma diventare consapevoli che tanto le cose quanto le persone passano. Non poche volte la vita ci chiede di voltare pagina. Che fare in quei frangenti? Se è vero che molte cose passano, chiedersi, invece, come Noè, cosa resta. Non basta conservare restando attaccati come a voler impedire certi processi. È necessario lasciarsi trasformare dal Signore che è in grado di farci comprendere il senso di ogni cosa, della vita come della morte.
Ciò che conta non è quello che stai facendo ma come e perché lo stai facendo.
Si può lavorare mossi unicamente dallo spirito di sopravvivenza oppure immaginare vie nuove per altri, mangiare spinti soltanto dall’appetito o aprirsi al gesto della condivisione, prendere moglie e marito solo perché catturati dal proprio stato sentimentale o vivendo lo stupore di chi non si sente all’altezza dell’amore ricevuto. Sta a noi decidere se far diventare ogni cosa primizia di ciò che resta anche dopo la fine di ogni cosa, quando non resta più niente altro.