In un dialogo serrato tra Gesù e i suoi interlocutori, ai Giudei che protestano rivendicando di essere figli di Abramo, Gesù ribatte dicendo: “Se siete figli di Abramo fate le opere di Abramo”. Credo possa essere applicato anche a noi: “Se siete figli di Benedetto fate le opere di Benedetto”. cosa vuol dire avere Benedetto per padre?

Significa, in primo luogo Dio: tutto il resto è conseguenza. Benedetto si sente interiormente conquistato dall’amore che Dio ha rivelato in Cristo Gesù da non riuscire a preporgli nient’altro. Intuisce che la vita cristiana non è nient’altro se non la risposta grata a un Dio che ha preso l’iniziativa, Lui, di venirci incontro. Riesce, infatti, a mettere qualcuno al primo posto solo chi ha fatto esperienza dell’essere lui in cima ai pensieri di un altro. Io in cima ai pensieri di Dio: come potrei non corrispondergli adeguatamente riservandogli il posto che merita?

Il più grande desiderio che Dio nutre nei nostri confronti è di poter godere di una reciproca comunione. Il rapporto con lui ci restituisce la nostra identità più vera: quella di figli amati da sempre. Quando io ero “nessuno” Dio mi ha raccolto e quando addirittura ero “nulla” Dio mi ha creato. Quando smarrisco questa consapevolezza, la mia vita diventa un perpetuo mendicare riconoscimenti e approvazioni pur di sentirmi qualcuno. Smarrito il rapporto con Dio, io corro il rischio di non sapere chi sono e cosa posso diventare.

Non c’è progetto di vita a prescindere da questa struttura di base da cui siamo costituiti. Io non sono il frutto di un caso né sono al mondo per un cieco destino. Sono il frutto maturo di un amore eterno. Quando questa consapevolezza ridiventa viva dentro di noi, la vita si declina come “stupore adorante, silenzio orante, ascolto devoto, lode gioiosa”.

Dio non è mai un estraneo per noi. Proprio perché “mio” Dio, sempre al mio fianco, la sua legge è la mia gioia, come ripete il Sal 119,2. Avremmo continuamente bisogno di riscrivere la nostra storia a partire dai tanti benefici di cui Dio ci ha fatto dono. È, infatti, la memoria grata di quanto egli ha compiuto per noi, a farci trascorrere i nostri giorni nella fiducia serena che nulla potrà mai separarci da lui e dal suo amore.

Noi celebriamo come patrono dell’Europa uno che ha fatto della fuga mundi il suo stile di vita. Cosa c’era in quel prendere le distanze da un certo mondo se non il bisogno di una rifondazione dell’esistenza su altre basi? Benedetto prende le distanze non dal mondo in sé ma dai criteri che ne regolavano l’ordinamento. E non è forse ciò di cui necessita anche questo nostro momento storico? Benedetto intuisce che è solo scegliendo il Vangelo che è possibile riportare l’uomo e il mondo a come sono usciti dalle mani di Dio quando ogni cosa era cosa buona.

Da profondo conoscitore del cuore dell’uomo, Benedetto intuiva la necessità di misurarsi con una Parola altra che non fosse quella dettata dal proprio stato d’animo. Sapeva bene, infatti, che il lasciarsi sospingere dai propri stati emotivi significa sottomettersi alla dittatura del proprio io: l’orgoglio infatti chiama orgoglio, il sopruso chiama sopruso. Il proprio sentire, quando non è illuminato dalla luce del vangelo, rischia di diventare una vera e propria trappola che ci tiene in schiavitù.

A noi, come un giorno a Benedetto, è rivolta la parola del salmo: “C’è qualcuno che desidera la vita e brama trascorrere giorni felici?”. Benedetto seppe rispondere: “Io lo voglio”. Come si può gustare la vita vera?

Ce lo ripete Benedetto nella sua Regola: «Soccorrere i poveri, visitare i malati, aiutare chi è colpito da sventura, consolare gli afflitti, nulla anteporre all’amore di Cristo. Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio, amare la castità, non odiare nessuno, non alimentare segrete amarezze, non essere invidiosi, non amare i litigi, evitare vanterie, nell’amore di Cristo pregare per i nemici, ritornare in pace con l’avversario prima del tramonto del sole. E non disperare mai della misericordia di Dio» (Reg. 4, passim).