L’intento era chiaro: screditare Gesù. I sadducei avrebbero voluto metterlo con le spalle al muro portando come pretesto una storia tra il fantasioso e il ridicolo, se non addirittura macabro. Non è difficile immaginare il sogghigno che li animava mentre si facevano avanti. Avessero potuto, si sarebbero fatti una gran risata a fronte della pretesa di credere che qualcuno possa risuscitare: sarebbe come ammettere che una donna che sulla terra ha avuto sette mariti, nella risurrezione possa appartenere con egual diritto a tutti e sette. Che storia d’amore potrebbe conoscere mai quella donna? Suvvia, siamo seri! Come si può credere che la vita non finisca qui sulla terra una volta che i giochi sono fatti? L’unica cosa possibile ad un uomo è assicurarsi un dopo mediante la trasmissione del patrimonio genetico di famiglia. Perché mai, infatti, quella donna doveva passare da uno all’altro dei fratelli se non per garantire quel patrimonio? Il motivo non era certo l’amore ma credere di sfidare la morte assicurando la discendenza.
Anche se non siamo sadducei, forse, potremmo appartenere anche noi alla categoria di chi professa un cristianesimo senza risurrezione, vale a dire, una fede che ha come unico orizzonte i giorni dell’uomo, nulla più: compiere il bene ed evitare il male (che è già qualcosa, sia chiaro!). Un cristianesimo che persegue la giustizia, che vive determinati valori ma tutto secondo una logica intramondana. Il dopo è escluso, l’oltre non è frequentato, ritenuto com’è, solo una mera invenzione di chi ha bisogno di trovare altre ragioni agli affanni dell’esistenza terrena. Non ci si vanta talvolta di essere cristiani solo perché facciamo del bene, comunque, pur non frequentando l’Eucaristia domenicale? Al massimo si può pensare ad un dopo come premio per il bene compiuto o come punizione per il male fatto. Credere, però, che la fede nella risurrezione possa avere qualcosa da dire qui e ora, è pressoché impensabile.
Non c’è da dargli torto, a voler essere onesti. Noi non riusciamo a pensare nulla secondo categorie nuove: al massino arriviamo a ipotizzare una riedizione riveduta e corretta delle cose ma credere che la realtà possa conoscere un nuovo ordine di cose è inammissibile. Niente di nuovo sotto il sole, attesterebbe il Qoelet di turno. Fosse dipeso da noi, Zaccheo sarebbe rimasto su quell’albero, la Samaritana al pozzo di Giacobbe, Matteo al banco delle imposte, Tommaso nel suo dubbio, Paolo sulla sua via di Damasco. E, invece, già qui già ora Dio suscita figli di risurrezione. Che cosa potrebbe accadere a noi qui e ora se solo acconsentissimo a lasciarci generare a una vita nuova, lo sa solo Dio.
Proprio la vicenda di quegli uomini appena richiamati attesta che il dopo di Zaccheo, della Samaritana e di tutti gli altri, è tutt’altra cosa rispetto al prima. E che cos’è quel loro “dopo”, se non una primizia di ciò che il Padre vorrebbe farci vivere in eterno? Perché scomodarli dalla loro postazione, se non per restituirgli la consapevolezza di essere fatti per ben altro?
Certo, i sadducei si aspettavano che Gesù capitolasse di fronte a un argomento tanto evidente. Si può continuare a credere alle favole? La morte è l’unica cosa certa, sopraggiunta la quale, il discorso è archiviato. E, invece, Gesù affronta l’argomento attingendo a una citazione che presenta Dio non come chi lascia cadere nell’oblio quanti confidano in lui bensì come il Dio di persone concrete tuttora viventi sebbene in altra forma: Abramo, Isacco e Giacobbe non sono solo nomi di un passato che non è più. Dio non è neppure soltanto il Signore della vita per cui alterna una generazione all’altra pur di assicurare l’esistenza sulla terra sostituendo una generazione ad un’altra. Il nostro è un Dio di persone concrete, conosciute ciascuna per nome. Nessuno di noi davanti a Dio è un oggetto come invece era quella donna nel racconto dei sadducei.
Un uomo e una donna che si sposano, prima ancora che essere preoccupati di procurarsi una discendenza che ne perpetui la memoria e il nome, sono il segno dell’amore che lega Dio a ciascuno dei suoi figli. La preoccupazione, infatti, non può essere in che modo esprimere in Paradiso i legami intrattenuti sulla terra, ma anticipare sulla terra quello che vivremo nel Paradiso. È quello che fanno i sette ragazzi Maccabei che proprio per questo accettano di morire d’amore sapendo che questa è la vita vera. Continuare, invece, un’esistenza fisica senza amore sarebbe stato morire comunque anzitempo. Quando manca la prospettiva dell’eterno, infatti, tutto si consuma in una logica di possesso che garantisca solo la mia sussistenza.
L’unica cosa che resta non è la discendenza che siamo riusciti ad assicurarci ma l’amore che ha animato il nostro essere al mondo, tanto per chi si è sposato quanto per chi non ha ricevuto tale vocazione.
Più forte della morte è l’amore: ad avere la meglio sulla morte non è la vita come forse desidereremmo ma l’amore, quello che non avrà mai fine perché permarrà anche quando la vita terrena sarà conclusa.